Carlo Talamo, il poeta di pistoni grandi come fiaschi e di valvole che paiono tegami

Siamo alla fine degli anni Ottanta. Io sono un ragazzino che non ama particolarmente le moto, ma che già sente il fascino dalle storie singolari, che escono fuori dal coro. Carlo Talamo nasce a Roma il 18 novembre del 1952. A tre anni ancora non parla. Be’, sì, è un po’ in ritardo. Poi, all’improvviso, non dice mamma, dice «bruuummm». Allora i suoi chiamano il medico. La madre piange. Suo padre pensa che è scemo. Glielo dice. E accompagna quell’«Allora sei scemo» con due sberle. Ma a Carlo importa poco di parlare. Gli piacciono i motori. Abita in campagna e gli piace un trattore, un Ford azzurro, che è vecchio vecchio e quando va, fa “pum pum pum” e a lui vengono i brividi. Carlo cresce con i motori nel cuore e più sono forti, più sono grandi e più lui gli vuole bene. Al tempo della scuola non studia, però disegna: cilindri, carburatori e marmitte strampalate. È scemo. Suo padre ormai è sicuro. «Non farai mai niente nella vita» gli dice ammollandogli un paio di sberloni che, secondo lui, servono a liberare il meccanismo inceppato di quella idiozia. Carlo se ne frega. Ogni giorno di più si appassiona all’odore di olio della vicina autorimessa.

Va detto che la vita è bella quando succede quello che succede a Carlo. Che una volta su un milione le ruote del destino si “inzeccano” proprio alla perfezione. Così i sogni del bambino diventano il suo futuro di adulto. A 26 anni sale sulla sua vecchia Triumph e si trasferisce a Milano per aprire una piccola officina dove ripara le poche Harley-Davidson presenti in Italia. E la vita diventa fantastica quando una volta su un miliardo le ruote del destino ci prendono gusto a “inzeccarsi” così bene. Allora Carlo diventa l’importatore ufficiale in Italia e poi in seguito risulta per cinque anni consecutivi il “Best Dealer” delle Harley nel mondo.

«È un fatto – dice Carlo – che il mondo sia un po’ stupido. Così uomini stupidi raccontano cose stupide che piacciono ad altri uomini stupidi. E il tutto ha una sua logica non priva di una certa tenerezza. Accade spesso che alcuni uomini interrogati sul loro successo si trovino a raccontare cose leggendarie a base di “grande intuizione” e “lucida intelligenza” e “avevo capito prima di tutti”. Bah. Sono sicuro che chiedendo: “come hai fatto” ad uno che ha vinto la lotteria ci si troverebbe davanti alla sua grande intuizione e lucida intelligenza e storie così. Vincere la lotteria è un fatto di casualità. Fortuna. Ma la condizione essenziale per accedere alla vincita è l’acquisto del biglietto.

Ecco fatto: interrogatemi sul perché sono riuscito ad avere fortuna nella mia piccola vita e vi dirò che avevo comprato il biglietto della lotteria. Ed ho vinto. Non avevo intuizioni, né intelligenza lucida. E non avevo capito nulla prima degli altri. Altrimenti forse adesso sarei a Papeete invece che a Milano ad importare motociclette. Motociclette che il caso mi aveva fatto incontrare quando non arrivavo neanche alle ginocchia di una Harley-Davidson.

E la passione ha trasformato il caso nel lavoro che ha cambiato la mia vita, la mia maniera di essere uomo, il mio stato economico. Quello sociale no che ancora mi metto le dita nel naso e dico parolacce. Come prima. E la povertà dei miei inizi mi portò a scegliere di non avere una agenzia pubblicitaria per promozionare la mia mercanzia. Decisi di far da solo. E siccome non sapevo cosa fare decisi di scrivere quello che pensavo. Quello che pensavo delle mie motociclette. Di me stesso. Della fidanzatina di quando avevo quattordici anni. Cose così. Senza senso. Cose casuali.

È capitato che queste cose buttate su delle pagine nere pubblicate a caso qua e la sui giornali che mi potevo permettere abbiano trovato persone che le hanno capite. Amate. Rispettate direi. E questo non è successo per caso ma perché in quelle pubblicità avevo messo me stesso ed il mio cuore ed anche se non lo sapevo allora, c’era un sacco di gente pronta a capire le mie Harley e me.»

Cose come questa. 

«Succede così. Succede molto spesso. Che il mondo diventi scuro. E le giornate di ferro. Io me ne frego. Io c’ho la moto. Che è bassa. Con le cromature. Nerissima. Che con le vibrazioni ci sposto la dentiera a quella del quarto piano. Io con la mia moto ci vado a spasso. Da solo. Non guardo nessuno. Soltanto quello che sta oltre la strada. Mi piacciono le pecore. E molto le galline. I contadini nei campi. E se vedo le margherite tiro su forte col naso. Spesso non sento nulla. A volte mi aspiro un moscerino. Quando ci sono le curve guardo l’asfalto e le sue buche. Il suo colore. E quando piove tiro due bestemmie e poi penso che non importa. E dopo sull’autostrada mentre me ne torno a casa, mi allungo sulla sella e godo il suono di sto motorone che gira basso. E spinge forte. Come quando mio padre mi prendeva a calci. Il mondo è dolce stasera. La vita è bella stasera. La città la attraverso a zigozago per fare più lunga la strada del ritorno.»

Come ho detto, siamo alla fine degli anni Ottanta e io all’epoca sono un ragazzino che non ama particolarmente le moto, ma che già sente il fascino dalle storie singolari, che escono fuori dal coro. Le poesie di Carlo le leggo sui giornali. Mi fanno sorridere, emozionare. Mi fanno pensare a certe canzoni di Vasco. Ai racconti di Bukowski. All’«arrivare dove si deve nello stato che si può» di Céline. Mi fanno pensare, forse per la prima volta, che la poesia può essere per tutti. Come l’espressione artistica in generale, che può trovare un suo pubblico anche sulla pagina a pagamento di un brutto giornale. E a dire il vero non è mai successo prima, di sicuro non in Italia e forse nemmeno nel resto del mondo, che a qualcuno potesse venire in mente di pubblicizzare qualcosa scrivendo quello che pensa della sua “mercanzia” e di se stesso a questo modo.

«Tanti motori mi hanno fatto vibrare le ossa e io li ho amati, e smontati, e maledetti e ho continuato e continuo oggi che vivo assieme al motore motociclistico più vecchio del mondo, vivo nel profumo di pistoni grandi come fiaschi, mi incanto al suono di valvole che paiono tegami. Mio padre pensa sempre che sono scemo ma non mi tira più ceffoni perché abitiamo lontani.»

La moto come narrazione. Ed è una narrazione che funziona perché parlando di moto, senza sconti e con tanta ironia, parla della sua vita.

«Io lo vedo dalle ombre della ruggine. Dal brillare che manca da troppo tempo. Lo vedo da tutto il nero che sta, sempre più nero, sotto al tuo motore. Io lo vedo che invecchi. Vedo l’olio che abbraccia lievemente tutto il lucido che avevi. Sento che ogni tanto sei stanca. Come me. Una ruga, un filo di grasso che ieri non c’era. Forse un pensiero. Che ieri era dolce ed oggi è come temporale. Non c’entrano gli anni. Non c’entra la fatica.

C’entra quello che abbiamo visto. Il male che ci hanno fatto. Ma il sole torna sempre. E delle volte ti vedo bambina. Ti vedo come quel giorno, quando nascesti nella mia vita. Con i raggi che brillavano nel sole. La vernice che scottava e toccarla era un piacere. Il motore incerto e pigro nei primi chilometri. Ne è passato di tempo e di strada. Ne abbiamo visto di mondo. Ne abbiamo avuto di freddo. E abbiamo riso. E una volta ti ho spinta per sei chilometri. E però ci siamo divertiti. E le rughe non le sento più. E quel fumo leggero che vien fuori dagli scarichi è senz’altro allegria. Non può essere olio. Ma poi ti guardo nel tappo e capisco che hai sete.

Ho sete anch’io e siamo in un bar. Io dentro che bevo e tu fuori che stai lì. C’è una ragazza bionda che mi parla.

Io intanto bevo. E lei dice che mi conosce. E io penso che ho sete. E lei dice cosa fai dopo. E tu stai lì. E forse fa freddo. E più tardi torneremo a casa assieme. E guiderai tu. Piano, pianino, con quel suonaccio irriverente che fai tu. E la notte sarà più calda. Abitata dagli scoppi che si perdono chissà dove. E dormiremo poi. Nel mio letto io.»

E funziona talmente bene questa narrazione che parlando di moto e della propria vita, arriva a parlare a tutti, come la letteratura quando diventa universale.

«La vita è strana. Sembra come una cosa congegnata da una mente superiore. Che però quel giorno ci stava poco con la testa. Quando ero bambino non vedevo l’ora di diventare grande. La patente, la moto, le ragazze. Mmmmmm. Poi adesso non vedo l’ora di diventare bambino. Però non lo posso dire a nessuno senno la ragazza mi lascia, la banca mi toglie il fido e mia madre mi ridice che sono scemo. Però è cosi. O almeno è cosi per me: quando ero piccoletto avevo tutto il tempo del mondo e un armadio di sogni e di cose che avrei voluto fare. Ma non avevo un soldo. Poi è passato il tempo, le cose sono andate bene. Mi sono ritrovato quattro soldi per le tasche, ho potuto comprare i giocattoli che sognavo. Però non c’è mai tempo. Finalmente un giorno me ne andrò in pensione, avrò quattro soldi, i giocattoli e tutto il tempo del mondo. Ma sarò rincoglionito. E tutt’al più potrò andarmene in giro con le mani dietro alla schiena a guardare le buche dei lavori della metropolitana. Bah. Una cosa strana. Perché la vita non è alla rovescia? Uno nasce e va a lavorare, tanto da cinque a vent’anni sei normalmente abbastanza imbecille (quanto meno lo ero io), poi da vent’anni a cinquanta te ne stai in pensione a giocare con le moto, a viaggiare, a fare il record di femmine. Poi quando sei diventato intelligente, maturo e ti sei divertito come uno sceicco te ne vai a lavorare invece di stare a casa a rompere le balle ai nipoti. Più ci penso e più vorrei diventare Re per ribaltare il mondo in un mondo più giusto.»

Poi succede una roba grossa. E lui la racconta a modo suo.

«Quando ero piccolo mio padre era enorme. Larghe spalle. E manacce pesanti.

Mi educò all’inglese. Cosi diceva lui. Cioè botte appena sgarravo. E sgarravo spesso. E super botte se piangevo. E infatti non piangevo mai. Fui insomma educato a non esprimere i sentimenti. Deve essere per questo che mi è venuta una faccia da stronzo che ognuno che mi guarda pensa che io lo sia. Invece no. lo sono un bravo tipo. È che la prepotenza che mio padre metteva nel farmi fare quello che voleva lui mi ha indotto, per la legge che ogni spinta produce una spinta uguale e contraria, a fare quello che voglio io. Cosi mi è venuto anche un carattere che mi porta alla ricerca dell’indipendenza totale. E questo è un fatto ancor più grave, nell’omologato mondo moderno. Cosi, durante i miei ultimi, e direi unici, sedici anni di lavoro, durante i quali ho umilmente, ma neanche tanto, importato le Harley nel nostro paese, ho collezionato un sacco di amici, complimenti e dimostrazioni di comprensione ed anche un sacco di accaniti nemici. Questa pagina è dedicata soprattutto alla tranquillità di questi ultimi e si intitola: finalmente se n’è andato. Sottotitolo: minchia che liberazione.

Esatto, con decorrenza 2 ottobre 2000, Carlo Talamo ha restituito la distribuzione italiana alla Harley-Davidson Italia levandosi, come si dice, dai piedi. Il sollievo per alcuni sarà enorme. Niente più pubblicità per le poesiole, niente più lettere ai giornali. Niente più fotografie di Talamo abbracciato al bicilindrico. Tutto bene quindi. Purtroppo no. Perché Talamo resta in pista. Abbracciato alle sue Triumph. Riciclato di brutto. Dopo aver rotto le balle per anni decantando vibrazioni e lentezza rieccolo qui a difendere impennate, multivalvole, e stracavalli.

[…] In realtà, durante i miei anni con l’Harley ho espresso, nonostante i divieti paterni, i miei sentimenti più intimi a proposito di quella strana motocicletta che era entrata nella mia vita modificandone il corso per sempre. Niente di quello che ho detto o scritto è stato dettato dall’opportunismo o dalla furberia. Però le cose cambiano. L’Harley è tornata all’Harley ed io sono tornato alla Triumph e ai suoi trecilindri che hanno colorato i miei primi anni motociclistici.»

Due anni dopo, però, la vita bella e fantastica prende le ruote “inzeccatissime” del suo destino e le ferma. È il 29 ottobre del 2002. Un martedì. Carlo è in sella alla sua moto – la prima e l’ultima, una Triumph – sull’autostrada che da Livorno porta a Milano, tra Viareggio e la Versilia. Perde il controllo e si schianta contro il guard-rail. Muore subito, dicono gli agenti della polizia stradale, mentre la sua Triumph scivola ancora sull’asfalto, tampona un furgone e finalmente si ferma. In tasca, Carlo lo diceva spesso, aveva solo la licenza media. Senza studiare ha comunque scritto pagine uniche del suo tempo, con l’editoria italiana che ovviamente non lo ha nemmeno percepito come un autore originale. Pare sia stato il primo ad andare con il windsurf in Italia, sperimentando sul Lago di Garda il primo arrivato nel nostro paese. Di sicuro il destino ha scongiurato la sua paura di rincoglionirsi in pensione. Se ne è andato a cinquant’anni, sulla sua moto, mentre tornava a casa.

«Mi allungo sulla sella e godo il suono di sto motorone che gira basso. E spinge forte. Come quando mio padre mi prendeva a calci. Il mondo è dolce stasera. La vita è bella stasera. La città la attraverso a zigozago per fare più lunga la strada del ritorno.»

Che detto così, a ripensare alle ruote del destino che si “inzeccano” proprio alla perfezione nella vita di Carlo, sembra che anche il finale sia per lui una specie di paradiso infinito.

© Michele Mengoli

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Tutti i testi citati sono tratti da: fedrotriple.it