Alda Merini e il sorriso all’inferno della vita

Ci sono notti ⎸ che non accadono mai ⎸ e tu le cerchi ⎸ muovendo le labbra. ⎸ Poi t’immagini seduto ⎸ al posto degli dèi. ⎸ E non sai dire ⎸ dove stia il sacrilegio: ⎸ se nel ripudio ⎸ dell’età adulta ⎸ che nulla perdona ⎸ o nella brama ⎸ d’essere immortale ⎸ per vivere infinite ⎸ attese di notti ⎸ che non accadono mai.

Alda Merini la conoscono tutti. Per i suoi tormenti. E per la poesia, che arriva immediata, come un tramonto meraviglioso, come un missile su un condominio di innocenti. La sua è la poesia più letta in Italia, ideale anche per una frase da Bacio Perugina. Ed è un complimento. Perché se una poesia arriva subito a tutti… è una poesia che funziona alla perfezione. Soprattutto, per la nostra coscienza di italiani, Alda Merini è un simbolo, un monumento, un’opera d’arte, come il Colosseo e la Torre di Pisa.

I poeti lavorano di notte ⎸ quando il tempo non urge su di loro, ⎸ quando tace il rumore della folla
e termina il linciaggio delle ore. ⎸ I poeti lavorano nel buio ⎸ come falchi notturni od usignoli
dal dolcissimo canto ⎸ e temono di offendere iddio ⎸ ma i poeti nel loro silenzio ⎸ fanno ben più rumore ⎸ di una dorata cupola di stelle.

Diceva lei. «Sono nata a Milano il 21 marzo 1931, a casa mia, in via Mangone, a Porta Genova: era una zona nuova ai tempi, di mezze persone, alcune un po’ eleganti altre no. Poi la mia casa è stata distrutta dalle bombe. Noi eravamo sotto, nel rifugio, durante un coprifuoco; siamo tornati su e non c’era più niente, solo macerie. Ho aiutato mia madre a partorire mio fratello: avevo 12 anni. Un bel tradimento da parte dell’Inghilterra, perché noi eravamo tutti a tavola, chi faceva i compiti, chi mangiava, arrivano questi bombardieri, con il fiato pesante, e tutt’a un tratto, boom, la gente è impazzita. Abbiamo perso tutto. Siamo scappati sul primo carro bestiame che abbiamo trovato. Tutti ammassati. Siamo approdati a Vercelli. Ci siamo buttati nelle risaie perché le bombe non scoppiano nell’acqua, ce ne siamo stati a mollo finché non sono finiti i bombardamenti. Siamo rimasti lì soli, io, la mia mamma e il piccolino appena nato. Mio padre e mia sorella erano rimasti in giro a Milano a cercare gli altri: eravamo tutti impazziti. Ho fatto l’ostetrica per forza portando alla luce mio fratello, ce l’ho fatta.»

Sorridi donna ⎸ sorridi sempre alla vita ⎸ anche se lei non ti sorride. ⎸ Sorridi agli amori finiti ⎸ sorridi ai tuoi dolori ⎸ sorridi comunque. ⎸ Il tuo sorriso sarà ⎸ luce per il tuo cammino ⎸ faro per naviganti sperduti. ⎸ Il tuo sorriso sarà ⎸ un bacio di mamma, ⎸ un battito d’ali, ⎸ un raggio di sole per tutti.

Diceva lei. «Io pregavo da bambina, ero sempre in chiesa, sentivo sette, otto, dieci messe al giorno, mi piaceva, però non ci vado più dai tempi del manicomio. Ho trovato una tale falsità nella Chiesa allora, in manicomio vedevo le ragazze che venivano stuprate e dicevano di loro che erano matte. Stuprate anche dai preti, allora mi sono incazzata davvero.»

Ho conosciuto Gerico, ⎸ ho avuto anch’io la mia Palestina, ⎸ le mura del manicomio ⎸ erano le mura di Gerico ⎸ e una pozza di acqua infettata ⎸ ci ha battezzati tutti. ⎸ Lì dentro eravamo ebrei ⎸ e i Farisei erano in alto ⎸ e c’era anche il Messia ⎸ confuso tra la folla: ⎸ un pazzo che urlava al Cielo ⎸ tutto il suo amore in Dio. ⎸⎸ Noi tutti, branco di asceti ⎸ eravamo come gli uccelli ⎸ e ogni tanto una rete ⎸ oscura ci imprigionava ⎸ ma andavamo verso le messe, ⎸ le messe di nostro Signore ⎸ e Cristo il Salvatore. ⎸⎸ Fummo lavati e sepolti, ⎸ odoravamo di incenso. ⎸ E dopo, quando amavamo, ⎸ ci facevano gli elettrochoc ⎸ perché, dicevano, un pazzo ⎸ non può amare nessuno. ⎸⎸ Ma un giorno da dentro l’avello ⎸ anch’io mi sono ridestata ⎸ e anch’io come Gesù ⎸ ho avuto la mia resurrezione, ⎸ ma non sono salita nei cieli ⎸ sono discesa all’inferno ⎸ da dove riguardo stupita ⎸ le mura di Gerico antica.

Diceva lei. «Sono tornata a Milano quando è finita la guerra, siamo tornati a piedi da Vercelli, solo con un fagotto, poveri in canna, e ci siamo accampati in un locale praticamente rubato, o trovato vuoto, di uno straccivendolo. E ci stavamo in cinque. […] In questo stanzone stavamo tutti e cinque, accampati, con delle reti, allora sono andata con il primo che mi è capitato perché non ce la facevo più. Avevo 18 anni, dove dormivo scusate? Così poi l’ho sposato, nel 1953. Era un operaio, è morto nel 1983, un lavoratore. Si chiamava Ettore Carniti […]. Ho avuto quattro figlie da lui.»

I versi sono polvere chiusa ⎸ di un mio tormento d’amore, ⎸ ma fuori l’aria è corretta, ⎸ mutevole e dolce ed il sole ⎸ ti parla di care promesse, ⎸ così quando scrivo ⎸ chino il capo nella polvere ⎸ e anelo il vento, il sole, ⎸ e la mia pelle di donna ⎸ contro la pelle di un uomo.

Diceva lei. «Ho avuto quattro figlie. Allevate poi da altre famiglie. Non so neppure come ho trovato il tempo per farle. Si chiamano Emanuela, Barbara, Flavia e Simonetta. A loro raccomando sempre di non dire che sono figlie della poetessa Alda Merini. Quella pazza. Rispondono che io sono la loro mamma e basta, che non si vergognano di me. Mi commuovono.»

Dicevano le figlie. «Solo successivamente veniamo a scoprire le cause del nostro affido ad altre famiglie: una notte nostro padre era rientrato a casa dopo essere andato in giro con gli amici e aver speso tutti i soldi, quella notte nostra madre gli scaraventò contro una sedia facendolo finire all’ospedale. Soffriva molto lei, non di gelosia, soffriva perché veniva picchiata quando lui era ubriaco, ma lei lo amava e si crogiolava nell’illusione che lui cambiasse. Questa grande sofferenza non l’abbandonerà più e sarà la stessa sofferenza che segnerà e condizionerà anche il futuro di noi figlie.»

Lei desiderava un sorriso ⎸ una musica muta ⎸ una riva di mare ⎸ per bagnarsi ⎸ il suo amore impossibile. ⎸ I suoi piedi nudi e piagati, ⎸ i suoi meschini capelli. ⎸ Lei ignorava che il ricordo ⎸ è un ferro piantato alla porta, ⎸ non sapeva nulla ⎸ della perfezione del passato, ⎸ del massacro delle notti solitarie ⎸ non sapeva che il più grande ⎸ desiderio ⎸ è un niente ⎸ che s’inventa stranissime cose, ⎸ e vola come un’idea ⎸ verso l’enciclopedia ⎸ del Paradiso. ⎸ Sogna ⎸ su un altare di piombo ⎸ e frusta strampalati pupazzi ⎸ che non portano mai allegria.

Dicevano le figlie. «Nel 1983, dopo una lunga malattia, viene a mancare nostro padre. Alda rimasta sola vive la sua solitudine di artista e donna, in uno stato psichico ancora debole. La non felice situazione finanziaria in cui versa, la porta ad affittare una stanza ad un amico pittore. Nello stesso periodo inizia un’amicizia con il poeta Michele Pierri che aveva dimostrato di apprezzare le sue poesie. L’intesa fra i due si fa sempre più forte, malgrado i trent’anni e la distanza che li separano, fino a quando decide di sposarlo, solo con rito religioso, e si trasferisce a Taranto dove vi rimane per circa quattro anni. Questo periodo di apparente tranquillità non dura però a lungo, l’aggravarsi delle condizioni di salute di Pierri viene preso come pretesto dai figli del medico-poeta, da sempre contrari al loro matrimonio, per allontanare nostra madre. Questo le provoca un profondo stato depressivo che la riporterà a vivere nuovamente le torture e gli orrori dell’ospedale psichiatrico, questa volta di Taranto.»

Quando ci mettevano il cappio al collo ⎸ e ci buttavano sulle brandine nude ⎸ insieme a cocci immondi di bottiglie ⎸ per favorire l’autoannientamento, ⎸ allora sulle fronti madide ⎸ compariva il sudore degli orti sacri, ⎸ degli orti maledetti degli ulivi. ⎸ Quando gli infermieri bastardi ⎸ ci sollevavano le gonne putride ⎸ e ghignavano, ghignavano verde, ⎸ era in quel momento preciso ⎸ che volevamo la lapidazione…

Dicevano le figlie. «Nel 1986 rientra finalmente a Milano, sulle rive dell’amato Naviglio, dove riprende a scrivere e ricuce le amicizie di un tempo. Sono anni fecondi per la poetessa Merini, anni dove si contano sempre maggiori pubblicazioni ed interventi pubblici, anni in cui le vengono assegnati diversi premi letterari e una laurea honoris causa dall’Università di Messina. Ma soprattutto anni in cui la personale battaglia di nostra madre con la sua indomabile vicenda esistenziale, la sua fragilità emotiva, provata dai lunghi periodi in manicomio e dalle ombre che ancora saltuariamente popolano la sua mente, trova finalmente la serenità a lungo cercata.»

Io non ho bisogno di denaro. ⎸ Ho bisogno di sentimenti, ⎸ di parole, di parole scelte ⎸ sapientemente, ⎸ di fiori detti pensieri, ⎸ di rose dette presenze, ⎸ di sogni che abitino gli alberi, ⎸ di canzoni che facciano danzare le statue, ⎸ di stelle che mormorino all’orecchio degli amanti. ⎸ Ho bisogno di poesia, ⎸ questa magia che brucia la pesantezza delle parole, ⎸ che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.

Dicevano le figlie. «Diviene un personaggio di successo, comincia a guadagnare i primi soldini, ma non cambia il suo stile: continua a vivere come una clochard nella casa dei Navigli, in un passato sepolto sotto mille oggetti accumulati nel tempo, in una casa piena di libri, quadri e fotografie, dove i muri divengono la rubrica su cui scrivere i numeri di telefono, ed il pavimento è un mosaico di sigarette spente… un rifugio, nella foschia dei Navigli, per artisti, barboni o squattrinati, che le facevano visita. La sola volta che lascia il suo rifugio è quando ottiene il premio Montale Guggenheim; con in tasca i soldi vinti chiude a chiave la casa in Ripa di Porta Ticinese 47 e si trasferisce all’hotel Certosa, dove vi rimane fino a quando non finisce tutti i soldi, in buona parte donati ai barboni che incontra per strada. […] Nostra madre si è spenta il 1° novembre 2009 all’Ospedale San Paolo di Milano, in seguito ad un tumore, fumando le sue inseparabili sigarette, una dietro l’altra fino all’ultimo, incurante dei divieti.»

Potresti anche telefonarmi ⎸ e dirmi in un soffio di vita ⎸ che hai bisogno del mio racconto: ⎸ favole di una bimba che legge i sospiri, ⎸ favole di una donna che vuole amare, ⎸ una donna che cerca un prete ⎸ per avere l’estrema unzione.

Diceva lei. «Io la vita l’ho goduta tutta, a dispetto di quello che vanno dicendo sul manicomio. Io la vita l’ho goduta perché mi piace anche l’inferno della vita e la vita è spesso un inferno… per me la vita è stata bella perché l’ho pagata cara».

Diciamo noi. Grazie Alda Merini. Per la tua discesa all’inferno. Per i tuoi sorrisi. Per la goccia d’acqua nel deserto. Per l’infinita attesa di quello che non è mai accaduto. Per le canzoni che hanno fatto danzare le statue e che hanno bisbigliato all’orecchio degli amanti. Grazie Alda perché, come un un simbolo, un monumento, un’opera d’arte, sei e sempre sarai.

© Michele Mengoli
PRESTO IL VIDEO RACCONTO © Black Sheep Strategy

Tutti i testi citati sono tratti da: aldamerini.it