Shackleton, salvaci tu

Uomini così non esistono più. Ernest Shackleton nasce nel 1874. A 16 anni si arruola come mozzo su una nave della marina mercantile britannica. Fa avanti e indietro tra l’Oceano Pacifico e l’Oceano Indiano fino a diventare nostromo a 22 anni. Ben presto però si rende conto che la vita nella marina mercantile non fa per lui. È troppo ambizioso. Così, a 26 anni, decide che vuol fare l’esploratore. È il 1900. A quel tempo il calcio non è quello di oggi. Shackleton sarebbe stato perfetto per il ruolo di Vardy, l’operaio che diventa l’eroico centravanti del Leicester campione d’Inghilterra nel 2016. E nemmeno il cinema è quello di oggi. Indistruttibile come Liam Neeson ma soltanto un po’ più basso. Al tempo, per diventare famoso, gli tocca fare l’esploratore. Perciò, l’anno dopo, riesce a imbarcarsi come terzo ufficiale nella spedizione al Polo Sud sulla nave Discovery, comandata da Robert Scott. Ma la missione fallisce e Shackleton collassa per lo scorbuto. Nel 1907 ottiene il comando della spedizione Nimrod. Devono raggiungere a piedi il Polo Sud. Sarebbero i primi a farlo. La missione fallisce, di poco. Mancavano i viveri. Lui però viene nominato cavaliere, oltre ad altri due titoli non da poco: comandante dell’Ordine reale vittoriano e ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico. Nel dicembre del 1911 è il norvegese Amundsen a riuscire nell’impresa di conquistare il Polo Sud. Ah, va detta una roba che forse in pochi sanno. Il Polo Sud, al tempo, non è solo il posto più ostile al mondo. Tanto per dire, ancora oggi, le tre temperature più basse sulla Terra sono state registrate qui: -93,2 °C nel 2010; -93,0 °C nel 2013; e -89,2 °C nel 1983. Il Polo Sud, al tempo, è semplicemente il confine del mondo conosciuto.

A questo punto, dopo Amundsen, che li ha fregati tutti (britannici, francesi, tedeschi, svedesi, giapponesi e americani), per gli esploratori dell’epoca resta un’ultima grande impresa. L’Impero Britannico la affida a Shackleton. Deve guidare la spedizione imperiale trans-antartica, con il comando della nave Endurance e del suo equipaggio di 28 uomini. È lo stesso Winston Churchill che glielo ordina. Attraversare il continente antartico via terra, a piedi, con slitte trainate da cani, per una distanza complessiva di 2.900 chilometri, con una previsione di viaggio di circa quattro mesi, partendo dal Mare di Weddell, nell’Oceano Atlantico, e arrivando al Mare di Ross, nell’Oceano Pacifico, ovviamente passando dal Polo Sud. Con temperature irreali che d’inverno arrivano tranquillamente a -45 °C; e soltanto cerate, vestiti di lana e scarponi di pelle e feltro per coprirsi. E davvero uomini così non esistono più. Tant’è che in pratica sarà quasi più semplice andare sulla Luna con l’Apollo 11, 55 anni dopo.

La missione inizia il 5 dicembre del 1914 con l’Endurance che lascia il porto del villaggio di Grytviken nella Georgia Australe. Due giorni dopo hanno il primo contatto con il pack, lo strato di ghiaccio marino che si forma con lo sgretolamento della banchisa. Il 19 gennaio del 1915 l’Endurance è bloccata. Il ghiaccio è ovunque. Il 27 ottobre l’equipaggio abbandona la nave. E il 21 novembre, all’altezza del 70º parallelo di latitudine sud, dopo 281 giorni alla deriva nella banchisa, verso nord-ovest, l’Endurance affonda. Così la missione fallisce ancora prima di cominciare. Quel giorno, però, inizia la leggenda. L’obiettivo, adesso, è portare a casa la pelle. Shackleton prova a dirigersi verso Paulet, l’isola che quindici anni prima ha dato rifugio ai naufraghi di una spedizione svedese. Dista 450 chilometri e subito si rende conto che la superficie del pack è una specie di enorme scogliera di ghiaccio con ammassi irregolari alti anche tre metri e quindi è del tutto impossibile trascinarci le scialuppe di salvataggio e le slitte con l’attrezzatura e le provviste. Dopo 18 chilometri di marcia in sette giorni di sforzi tremendi, rinunciano e si accampano su un pezzo di ghiaccio grande un chilometro e mezzo quadrato e ci restano per quasi due mesi. Il 23 dicembre si spostano per due chilometri e mezzo e si fermano per altri tre mesi e mezzo. Il 9 aprile del 1916 il ghiaccio inizia a frantumarsi. I 28 uomini dell’equipaggio salgono a bordo delle scialuppe. Sono due le possibili destinazioni: le isole dell’Elefante e di Clarence. Le condizioni del Mare di Weddell sono proibitive per il freddo, la difficoltà di alimentarsi e gli abiti costantemente bagnati dall’acqua gelida. Dopo sette giorni di navigazione raggiungono l’Elefante. È il 14 aprile. L’isola è soltanto roccia e neve. Quindi a Shackleton non resta che una mossa disperata. Prendere una scialuppa con 6 uomini e navigare per 1.300 chilometri in pieno oceano e raggiungere il punto di partenza della loro spedizione, la Georgia Australe. Una barca di soli 7 metri, piena di 600 gallette e poco altro cibo, 160 litri di acqua da bere e 450 chilogrammi di sacchi di sabbia come zavorra, per attraversare il mare più tempestoso del mondo, nello Stretto di Drake, con venti da 70 chilometri all’ora e onde di oltre 20 metri, per quello che ancora oggi viene considerato il viaggio marittimo più folle di sempre. Anche perché il capitano Frank Worsley, per orientarsi nella navigazione, dispone soltanto di un sestante e un cronometro.
Salpano il 24 aprile.

Scrive Shackleton: «A mezzanotte mi trovavo al timone quando, all’improvviso, notai un tratto di cielo limpido tra sud e sud-ovest. Svegliai gli altri e gli dissi che il cielo si stava rasserenando ma poi, un momento dopo, realizzai che quello che avevo visto non era uno squarcio nelle nubi ma la cresta bianca di un’onda immensa. Nel corso di ventisei anni di esperienza nelle acque dell’oceano, vissuto in tutti i suoi possibili umori, non mi ero mai trovato di fronte a un’onda così grande. Si trattava di un enorme rigonfiamento delle acque, un’esperienza del tutto diversa rispetto a quel mare ricoperto di bianco che per tanti giorni era stato il nostro instancabile nemico. “Per l’amor di Dio, tenetevi! Sta arrivando!”. Poi ci fu un attimo di attesa che sembrò durare ore. Tutto intorno a noi si sollevò la schiuma bianca di quel mare in agitazione. Sentimmo la barca innalzarsi e lanciarsi in avanti come un tappo nel frangente di un’onda. Ci trovavamo nel tumulto di quelle acque sconvolte ma, in qualche modo, la barca riuscì a cavarsela anche se si riempì per metà d’acqua e continuò a vibrare per il colpo ricevuto. Sgottammo con l’energia di chi lotta per la vita, gettando fuori l’acqua con ogni contenitore che ci capitasse per le mani. Fortunatamente, dopo dieci minuti di incertezza, sentimmo la barca ritornare alla vita.»

È incredibile. Arrivano il 10 maggio. Ma l’incredibile deve ancora avvenire. Per nove ore combattono contro una specie di uragano per non sfracellarsi contro le scogliere della Georgia Australe. E quando toccano terra capiscono che per arrivare ai soccorsi – ovvero per raggiungere le stazioni baleniere sull’altro lato dell’isola – la devono attraversare a piedi. Un territorio inesplorato di montagne innevate e ghiacciai. Il 19 maggio, alle 3,20 del mattino, partono in tre – Shackleton, il capitano Worsley e il secondo ufficiale Tom Crean – senza tenda e sacchi a pelo, utilizzando dei ramponi improvvisati con dei chiodi conficcati nelle suole delle loro scarpe e senza l’ausilio di altro equipaggiamento tecnico. Attraversano i 50 chilometri dell’isola e arrivano a Stromness, la stazione dei balenieri, alle quattro di pomeriggio del giorno dopo.

L’attraversamento della Georgia Australe è stato compiuto soltanto da un’altra spedizione, quarant’anni più tardi, nel 1955, da una squadra britannica sotto la guida di Duncan Carse. Era composta da esperti scalatori ed equipaggiata con tutto il necessario, nonostante ciò, non è stata un’ impresa facile. Scrive Carse in proposito: «Shackleton, Worsley e Crean non so come abbiano fatto, salvo che dovevano farcela… Tre uomini di tempi eroici delle esplorazioni antartiche, con quindici metri di corda e un’ascia da carpentiere.»

Il 22 maggio recuperano gli altri tre rimasti dall’altra parte dell’isola. Il 30 agosto Shackleton raggiunge l’isola dell’Elefante e salva il resto dell’equipaggio dell’Endurance nel Mare di Weddell. E il 10 gennaio del 1917 porta in salvo i superstiti dell’Aurora, la nave di supporto, sulla costa del Mare di Ross, dall’altro lato del continente, che aveva predisposto i depositi di rifornimento per l’equipaggio della Endurance.

Sono due i libri imperdibili su Shackleton. Il suo Sud, in Italia pubblicato da Bibliotheka. E il celeberrimo saggio di Alfred Lansing, Endurance. L’incredibile viaggio di Shackleton al Polo Sud, in italiano nelle ristampe di Tea. Questo resoconto è basato su questi due libri straordinari. Nel secondo, nell’edizione del 2009, vi è la postfazione del rocciatore Marco Petri.

Scrive: «Il bisogno di dimostrare la superiorità dell’uomo nei confronti della Natura si esprimeva allora nell’eroismo e nella capacità di resistere a qualsiasi difficoltà, a qualsiasi clima. In questo contesto le esplorazioni polari rappresentavano la più affascinante delle sfide. [Shackleton] … non cercava certo il feeling con la natura: foche e pinguini per lui rappresentavano solo del cibo. Arrivò persino a sacrificare i propri cani. La ricerca della vittoria sulla Natura era una questione di stima con se stesso e di fama con gli altri. La fama come forma di austerità, come affermazione dell’efficienza e della superiorità vittoriana che egli rappresentava. E fu con questo spirito che Shackleton affrontò la Natura che gli affondò la nave, che lo tenne in scacco per quasi due anni. Ma lui si dimostrò all’altezza di ogni avversità. Alla fine, con maniacale tenacia, riuscì a imporsi ritagliandosi uno spazio da eroe nella storia dell’esplorazione del nostro pianeta. Riuscì persino a morire da queste parti, una decina d’anni dopo l’avventura dell’Endurance. È seppellito in Georgia Australe: una piccola tomba bianca disturbata solo dalle urla stridule degli albatross.»

In una cosa, però, Shackleton si sbagliava.

«Il rammarico – scrive nel suo diario in uno dei momenti di massima difficoltà – non sta tanto nel dover morire, ma nel fatto che nessuno saprà mai quanto vicini siamo stati a salvarci.»

No, non è vero, il mondo lo sa.

© Michele Mengoli

PRESTO IL VIDEO RACCONTO © Black Sheep Strategy