Rosa Parks. Il più grande “puoi farlo” della storia contemporanea

Oggi è il grande giorno, che forse accade per caso, oppure no, perché è il destino – il tuo destino o quello dell’umanità – che decide di metterti nel posto giusto al momento giusto; mentre tu, a ragionarci prima e durante (ma non dopo), ne avresti fatto volentieri a meno. Rosa Parks è afroamericana, che è il termine che ha scelto Malcolm X perché lo considerava più corrispondente al concetto di “africani che vivono in America”. Rosa ha 42 anni e fa la sarta in un grande magazzino di Montgomery, la capitale dell’Alabama, uno dei più importanti stati del sud degli Stati Uniti d’America. È il primo di dicembre. Un giovedì. Ed è il 1955. Proprio qui, a Montgomery, 94 anni prima, nel febbraio del 1861, i rappresentanti degli stati del sud creano gli Stati Confederati d’America. All’epoca, l’agricoltura è la principale fonte di ricchezza. Nel basso sud si coltiva il cotone, nella Louisiana la canna da zucchero, mentre nell’alto sud, meno umido e più freddo, si coltivano tabacco, mais e agrumi. In queste piantagioni ci lavorano tre milioni e mezzo di afroamericani, che sono schiavi, diretti discendenti degli schiavi condotti nelle colonie inglesi nel Settecento. È con la guerra civile americana, iniziata il 12 aprile dello stesso anno e finita con la sconfitta degli Stati Confederati secessionisti, che viene abolita la schiavitù in tutti gli Stati Uniti d’America.
Il grande giorno è appunto 94 anni dopo: il primo di dicembre del 1955. Sempre qui, a Montgomery, nel profondo sud. La schiavitù non c’è più. Adesso però c’è la segregazione razziale. Che vuol dire regole diverse per bianchi e neri. E che, per la precisione, significa discriminazione nei confronti dei neri ai quali è precluso o limitato l’accesso a strutture e servizi come alloggi, cure mediche, istruzione, lavoro e trasporti.
Oggi è il grande giorno. Sono le cinque del pomeriggio di un giovedì che sembra uguale a tanti altri giovedì del passato di Rosa e invece non lo è per niente uguale agli altri. Rosa esce dal lavoro. Per tornare a casa, come sempre, aspetta l’autobus per Cleveland Avenue. E lo aspetta alla fermata di Court Square. Arriva il torpedone numero 2857. A produrlo è la General Motors. Le linee sono quelle super bombate degli anni Cinquanta. L’autobus è di un bel colore giallo ocra, con il tetto bianco e i nove finestrini contornati di verde sulle rispettive fiancate. Rosa sale sull’autobus numero 2857 e si siede in quinta fila, dove ci sono quattro posti, due sul lato dell’autista James Blake, e due alla sua destra, dove si mette lei, nella seduta più vicina al corridoio centrale. La segregazione razziale è anche questo. Le prime file sono riservate ai bianchi. Le ultime ai neri. E quelle di mezzo, dove ha trovato posto Rosa, sono per tutti, bianchi e neri. Con l’obbligo, per i neri, di cedere il posto a un bianco se gli altri non sono disponibili. E con la peculiarità che se anche un solo passeggero bianco avesse bisogno di un singolo posto, tutta la fila di quattro passeggeri neri si deve alzare perché nessun bianco si può sedere nella stessa fila di un nero. È la regola. Ecco, tanto per dire, cos’è la segregazione razziale a Montgomery, nell’Alabama del 1955.
Alla fermata successiva, quella di Empire Theatre, sale un gruppetto di bianchi. Tutti trovano posto. Tutti, tranne uno. E di sicuro è il destino che lo ha lasciato lì, in piedi, ad aspettare l’ordine dell’autista, perché se avesse trovato posto anche lui, il mondo di oggi, probabilmente, sarebbe diverso, peggiore. Peggio del peggio che è. A questo punto, James Blake, l’autista, si rivolge alla fila di Rosa. E dice: «Fatemi avere quei posti davanti.»
Rosa e gli altri tre seduti nella sua fila non si muovono.
Blake, l’autista, allora, con tono perentorio, dice: «Fate meglio a farmeli avere quei posti.»
Qualche istante d’immobilità totale poi l’uomo accanto a Rosa si alza.
Lei lo lascia passare.
Subito dopo si alzano anche le due donne sedute dall’altra parte del corridoio.
Rosa, invece, del tutto inaspettatamente, decide di no. Oggi no, non si alza. Oggi, Rosa, decide che il grande giorno è arrivato. E mica che il grande giorno l’avesse programmato alla mattina, facendo colazione, o la notte prima, non dormendo per l’ansia della premeditazione, accanto a Raymond, l’amato marito, che di mestiere fa il barbiere. Così, nonostante gli sguardi ostili di Blake e degli altri passeggeri bianchi e anche degli altri neri che non vogliono grane, Rosa resta lì seduta. E decide che il grande giorno dev’essere proprio quel giovedì primo dicembre del 1955.
Dice Blake: «Be’, ho intenzione di farti arrestare.»
E Rosa trova il coraggio di rispondere per se stessa e per il resto del mondo – passato, presente e futuro – che odia i soprusi e la mala gestione del potere, qualsiasi esso sia. Rosa trova il coraggio di pronunciare quelle parole definitive: «Puoi farlo.»
Blake scende dall’autobus e chiama la polizia da un telefono pubblico.
Poco dopo due poliziotti dicono a Rosa: «La legge è la legge e tu sei in arresto.»
Rosa finisce in carcere per “condotta impropria”. La sera stessa però viene scarcerata grazie all’avvocato Clifford Durr, bianco e antirazzista, da sempre impegnato nella battaglia per i diritti civili degli afroamericani. È lui, uno del resto del mondo, che decide di pagarle la cauzione.
Intanto la notizia dell’arresto di Rosa fa il giro della città e subito nasce l’idea di una protesta pacifica: il boicottaggio dei mezzi pubblici di Montgomery da parte della popolazione nera. L’iniziativa viene appoggiata anche da Martin Luther King, che all’epoca è un 26enne alle prese con il suo primo impiego alla chiesa battista di Dexter Avenue a Montgomery.
Il 5 dicembre è il giorno del processo. In mezzora la giudicano colpevole. Rosa deve pagare una multa di 10 dollari e altri 4 per le spese processuali. Il 5 dicembre comincia anche il boicottaggio dei mezzi pubblici. Dura 381 giorni, fino a quando la Corte Suprema degli Stati Uniti, all’unanimità, dichiara incostituzionale la segregazione sui mezzi pubblici.
La settimana dopo Rosa sale sull’autobus. E la novità, a suo modo, è epocale. Perché si siede dove le pare, fanculo la segregazione razziale. Al suo fianco c’è Martin Luther King. Rosa diventa il simbolo del movimento per i diritti civili. E anche il nemico pubblico numero uno degli ambienti bianchi di Montgomery. Perché fuori dagli autobus, nel sud degli Stati Uniti d’America, la segregazione razziale c’è ancora. Eccome se c’è. Rosa viene licenziata. Le ritorsioni nei suoi confronti sono continue. Non mancano nemmeno le minacce di morte. Rosa non trova lavoro. Allora si trasferisce a Detroit, nel Michigan, dove riprende a fare la sarta. Nel ’65 diventa la segretaria di John Conyers, membro democratico del Congresso. Nel ’87 fonda a nome suo e del marito Raymond – scomparso dieci anni prima – un istituto per l’integrazione, in particolare degli afroamericani. Nel ’99 ottiene la medaglia d’oro del Congresso, il massimo riconoscimento civile degli Stati Uniti d’America, e “Time” la definisce una delle venti figure più influenti del XX secolo. Qualche anno dopo, a poche miglia da Detroit, il museo Henry Ford espone l’autobus 2857. È completamente restaurato, uguale a com’era in quel grande giorno del primo dicembre del 1955. Il 24 ottobre del 2005, a Detroit, Rosa, per cause naturali, si ricongiunge con il suo Raymond ed entra nella leggenda del resto del mondo, quello buono, che non chiude le porte ma le apre. Nel 2012, al museo Henry Ford, il presidente Barack Obama si fa fotografare seduto sull’autobus 2857. È nella stessa fila di Rosa, ma sul lato opposto. Come la vita, quando si è spettatori.
Rosa, di quel grande giorno, raccontava questo: «Dicono sempre che non ho ceduto il posto perché ero stanca, ma non è vero. Non ero stanca fisicamente, non più di quanto lo fossi di solito alla fine di una giornata di lavoro […]. No, l’unica cosa di cui ero stanca era subire.»
E di solito è proprio così che funziona. I grandi giorni, per l’umanità, arrivano quando qualcuno è stanco di subire e dice: «Puoi farlo.»

© Michele Mengoli

PRESTO IL VIDEO RACCONTO © Black Sheep Strategy